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E se capitasse a me? (è lungo, suggerisco una lettura rateale)

Qualche tempo fa, sapendo che del mio stage  formativo presso un famoso ospedale pediatrico, un amico mi ha chiesto: 
“Cosa ti comporta emotivamente lavorare con queste situazioni?” 
Intendendo dire che il burn-out di un terapista, seppur poco considerato, è senz’altro sempre in agguato, soprattutto in alcuni reparti tipo oncologia,  neurologia, le patologie croniche degenerative (cioè quelle che ora ci sono e sono tremende, e domani saranno peggio), e in generale le lungo degenze .

Cosa succede in chi tratta pazienti la cui vita è  così profondamente permeata di anormalità ?
Si diventa ipocondriaci?
Si pensa di più alla morte?
Ci si butta sul cinismo?
Si vive nel terrore che possa capitare a noi o a qualcuno della propria famiglia?

Ho capito che a nessuno piace particolarmente sentir parlare gli addetti ai lavori, per alcuni anche solo sentre queste domande “porta sfiga”.
Ma qui siamo tra noi, se fossimo superstiziosi saremmo già morti sotto le numerose scale aperte che incontriamo nella pratica clinica.
Non scomodiamo la psicologia, né quella da bar né quella da professionisti…
Facciamo solo qualche osservazione.

L'ironia c'è, se no non ce la faremmo. A volte diventa cinismo offensivo e fuori luogo, perché tendiamo dopo un po’ a considerarlo normale. A volte ci svolta la giornata. Il meglio è quando si riesce a dividerla con il paziente .

Da questo punto di vista il paziente cronico è il più scafato ma anche il più permaloso: la battuta può essere crudele, ma deve sottintendere una profonda considerazione dello stato “speciale” della sua vita: mi viene in mente un paziente sieropositivo, accanito fumatore.  
Io: “Uei, ma lo sai che il fumo uccide, si?” 
Lui fa per partire con una risposta acida, poi mi guarda in faccia e mi manda a fanculo ridendo. 
Oppure quel ragazzo con la SLA (una patologia mostruosa, che in breve tempo ti stacca la spina dei muscoli, generalmente partendo dalle gambe e via a salire, finchè non si paralizzano diaframma o cuore e tanti cari saluti a tutti, sempre conservando la lucidità), lui due stampelle, grosse braccia a compensare due zampette mosce, la moglie accanto, sorridente, entrambi trentenni… chiedo, abbastanza banalmente “Come va?” e lui “Benone, finchè sto in piedi…” Non fa una grinza.

Ma non è l'ironia (o il cinismo) la naturale evoluzione del lavoro con la patologia. Sicuramente è utile. Ma ancora più utile è, come ci disse il mai abbastanza lodato professor Crocetti, psicologo del corso di studi, è “entrare e uscire dall’empatia a nostro piacimento” .
Abbastanza dentro da capire il dramma, usare le parole giuste, pretendere una reazione appropriata.... e abbastanza fuori da dormire la notte, tornare a casa e guardare la nostra famiglia senza immaginare ogni componente in sedia a rotelle. Abbastanza in mezzo  da riuscire a dare risposte ferme al paziente e alla sua famiglia.

Allora, cosa mi comporta lavorare con bambini che fino a due mesi fa erano normalissimi, e ora che hanno avuto un’encefalite, che sono stati investiti, che hanno avuto qualcosa di banale con effetti disastrosi? 
Vedere  il deterioramento delle condizioni, magari permanente, o  una demenza perenne, l’incontinenza, o ancora una vita con una socialità condizionata… gli adolescenti, per esempio: c’è una ragazza che sbircia i visitatori facendo apprezzamenti… Al nostro sguardo di sottovalutazione delle sue possibilità, risponde “Ehi, mi mancheranno pure i capelli, ma ho pur sempre 17 anni!” la sua lucidità è conservata, vorrebbe il fidanzato, ma con una lesione al cervelletto sei fuori gara...
L’empatia per me è una fregatura e una benedizione… ben lungi dalla “padronanza a comando” suggerita dal professore, sono in eterna difesa del mio spazio sano.
Vedo madri che (per quanto a volte le strozzerei) si sono adattate non dalla nascita – che non è meglio, ma almeno già lo sapevi- ma da un’età avanzata, 2, 6, 13 anni che il loro figlio non è più un bambino normale, e via, ricominciano a vivere da capo, ribaltando le priorità, facendo scelte repentine (trasferimenti, vendite, educazione dei fratelli, rapporto con i mariti, percorsi di studio)… lì si, lì mi chiedo cosa farei, ma come disse un’amica medico, il cui papà si è ammalato cambiando completamente carattere “è incredibile quanto ci si riesca ad adattare a tutto, siamo di gomma”…quindi chissà, l’adattamento probabilmente verrebbe da sé…

Però questo lo noto ogni volta: che il carattere primario, quello di prima della patologia, è un buon segno predittivo non solo di come sarà la vita da disabile, ma anche di quanto sarà difficoltosa la vita dei famigliari: ci sono famiglie che comprano la sedia a rotelle, la macchina più grande,e vanno in vacanza come prima, solo con alcuni accorgimenti in più, e pazienti che si tumulano in casa a smadonnare perché tra due, 10, 20 anni moriranno… tra questi, una gamma infinita di interessanti combinazioni dal Quasi Incosciente al Più Che Sconvolto, dallo Sportivo Incallito al –frequentissimo- Esasperato dalle Scartoffie (categoria presente in ogni stato della società)


Allora la reale domanda che resta, il dubbio da cui non ci si difende, non è: “Cosa farei se capitasse a me” ma “Cosa SAREI se capitasse a me

Sarei un uomo prostrato, insofferente, convinto che la vita mi deve qualcosa per questa ingiustizia, un uomo che ha il diritto di lagnarsi quanto vuole, perché porca troia ma non ne ho avute abbastanza dalla vita, … o sarei un uomo con esigenze particolari, ironico, consapevole e capace di accontentarmi delle capacità rimaste? 
Sembra un giudizio, a scriverlo così, come se io pensassi che uno è meglio e l’altro è peggio, uno più simpatico l’altro meno… non è così: ragiono da riabilitatore: penso “Chi ha più possibilità terapeutiche? Chi soffre di meno?”

A pensarci bene, questa è una domanda che si può fare a prescindere dall’ipotesi di patologia. Non “cosa sarei”, allora, ma “cosa sono”.

Forse è questa, la sequela emotiva che ho dal lavorare con la malattia.

Cosa sono?

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