Due anni fa di questa stagione prendevo in carico in terapia domiciliare la paziente A, una bella donna di quasi 60 anni, dall’ aspetto curato (anche se lei si scusò subito: “sono in condizioni disastrose”)
A. era in sedia a rotelle, con la quale si muoveva con una certa disinvoltura nella sua casa dagli ampi spazi. Vive tutt’ora in campagna, adora le piante, suo marito è un abile tuttofare, la vicina è sua sorella e sono molto unite.
Ha una neuropatia periferica dovuta al diabete, che ha reso necessaria l’amputazione della gamba sinistra (il moncone arriva a metà coscia).
Quando l’ho vista per la prima volta non aveva ancora mai provato a camminare con i deambulatori antibrachiali (le “stampelle”) e le chiesi il perché, visto che sembrava in forma.
Quando l’ho vista per la prima volta non aveva ancora mai provato a camminare con i deambulatori antibrachiali (le “stampelle”) e le chiesi il perché, visto che sembrava in forma.
“Non è vero, sono ingrassata molto, e poi ho paura.”
Quando un terapista sente queste parole, sa di non potersi fidare: i pazienti usano il termine paura per indicare una gamma estremamente variegata di sensazioni, che vanno dalla leggera preoccupazione al terrore puro, e ognuna di queste sensazioni richiede un approccio specifico per non iniziare subito con…il piede sbagliato.
Nel caso di A. si trattava di vari giustificati timori: di perdere l’equilibrio e non sapere come rialzarsi con una gamba sola, dell’imbarazzo di apparire goffa, di doversi vedere menomata (tanto che aveva coperto il moncone), e infine di dover accettare che non avrebbe più camminato come prima.
Quest’ultima paura è la più sottile, intimamente connessa con il rapporto ambiguo che si instaura con gli ausili: per alcuni la sedia a rotelle diviene una rassicurante e comoda sistemazione in attesa di guarire: un ausilio temporaneo.
In qualche modo, finché c’è sedia c’è speranza, e spesso è necessario fare i conti con questo tipo di affezione prima di procedere con deambulazioni più efficaci.
Per quelli che dovranno conviverci per sempre, diventa un'appendice naturale. Non volevo che lei si rassegnasse già a questo, visto che poteva evitarlo.
Quest’ultima paura è la più sottile, intimamente connessa con il rapporto ambiguo che si instaura con gli ausili: per alcuni la sedia a rotelle diviene una rassicurante e comoda sistemazione in attesa di guarire: un ausilio temporaneo.
In qualche modo, finché c’è sedia c’è speranza, e spesso è necessario fare i conti con questo tipo di affezione prima di procedere con deambulazioni più efficaci.
Per quelli che dovranno conviverci per sempre, diventa un'appendice naturale. Non volevo che lei si rassegnasse già a questo, visto che poteva evitarlo.
Inizialmente, quindi, vista la componente affettiva così determinante, abbiamo soprattutto parlato: lei prima amava andare a ballare con il marito, fare tutto da sola, cucinare e occuparsi dell’orto… ora non si sentiva più di uscire di casa perché non voleva farsi vedere “così” in paese, non poteva accedere ad alcuni ambienti della sua stessa casa, non era più utile a nessuno e in più le faceva male il fantasma della gamba amputata.
Il fantasma si potrebbe definire come "un ricordo di dolore". E' un dolore vero e proprio, dovuto al fatto che abbiamo una sorta di rappresentazione mentale di tutto il corpo, una mappa, che riceve continui aggiornamenti dal suo corrispettivo reale.
Poiché gli arti diabetici sono molto dolorosi, l'aggiornamento è composto di pessime notizie, come un bollettino che dice "ora mi fa male" "ora non sento il dito" "ora ho il ginocchio freddo" e così via. Per mesi. Il cervello, per non impazzire, mette tutto in un faldone con scritto "dolori all'arto" e passa oltre.
Quando si decide di amputare la parte, la mappa dell'arto mantiene le ultime caratteristiche che ha ricevuto negli aggiornamenti. Faceva male prima, e fa male dopo. Hai voglia a dire: "puoi rilassarti, non c'è più". Macché.
Tutto come prima, solo che la gamba non c'è.
A. sentiva il fantasma pesante, parestetico (caldo o freddo o formicolante), contratto in posizione innaturale, e spesso le dava crampi tanto forti quanto difficili da collocare.
Era la prima volta che avevo a che fare con un arto fantasma così “organizzato” e mi chiesi come avremmo potuto distendere il crampo di un fantasma.
È come quando i bambini ti chiedono di mangiare la “torta al cioccolato” che ti stanno porgendo su un piattino vuoto. Dici “Mmm, buona!” Oppure: “Manca un po’ di crema, me la metti per piacere?” .
Il sapore non c’è, ma è come se ci fosse. E il crampo di un fantasma?
Mi ripromisi di studiare le esperienze di altri terapisti, e la rassicurai: "Impareremo a gestirlo, ma ce lo teniamo perché ci servirà per la protesi " (in effetti il fantasma fa sì che la protesi venga inserita nella rappresentazione motoria).
Il fantasma si potrebbe definire come "un ricordo di dolore". E' un dolore vero e proprio, dovuto al fatto che abbiamo una sorta di rappresentazione mentale di tutto il corpo, una mappa, che riceve continui aggiornamenti dal suo corrispettivo reale.
Poiché gli arti diabetici sono molto dolorosi, l'aggiornamento è composto di pessime notizie, come un bollettino che dice "ora mi fa male" "ora non sento il dito" "ora ho il ginocchio freddo" e così via. Per mesi. Il cervello, per non impazzire, mette tutto in un faldone con scritto "dolori all'arto" e passa oltre.
Quando si decide di amputare la parte, la mappa dell'arto mantiene le ultime caratteristiche che ha ricevuto negli aggiornamenti. Faceva male prima, e fa male dopo. Hai voglia a dire: "puoi rilassarti, non c'è più". Macché.
Tutto come prima, solo che la gamba non c'è.
A. sentiva il fantasma pesante, parestetico (caldo o freddo o formicolante), contratto in posizione innaturale, e spesso le dava crampi tanto forti quanto difficili da collocare.
Era la prima volta che avevo a che fare con un arto fantasma così “organizzato” e mi chiesi come avremmo potuto distendere il crampo di un fantasma.
È come quando i bambini ti chiedono di mangiare la “torta al cioccolato” che ti stanno porgendo su un piattino vuoto. Dici “Mmm, buona!” Oppure: “Manca un po’ di crema, me la metti per piacere?” .
Il sapore non c’è, ma è come se ci fosse. E il crampo di un fantasma?
Mi ripromisi di studiare le esperienze di altri terapisti, e la rassicurai: "Impareremo a gestirlo, ma ce lo teniamo perché ci servirà per la protesi " (in effetti il fantasma fa sì che la protesi venga inserita nella rappresentazione motoria).
Per prima cosa decidemmo di fare una prova di deambulazione con le stampelle, e considerando la paura se la cavò egregiamente. Già nella prima seduta, però, pensai di metterla a terra e cercare insieme una soluzione per alzarsi (dovevo provare anch’io, e non avevo idea che fosse così faticoso: in passato mi ero rotta una gamba, ma dovetti riconoscere che tra evitare che poggi e fare finta che non c’è corre una differenza enorme)
Bene o male, con l’aiuto del divano, trovammo una soluzione.
Difficile era immaginare una situazione di emergenza, come una caduta accidentale,nella quale senz'altro non si sarebbe avuta la lucidità di strisciare verso il divano trascinando le stampelle come nella simulazione, ma per il momento poteva bastare.
Con i pazienti emiparetici per ictus spesso è necessario rimanere a terra per settimane prima di trovare un modo per alzarsi. Per essere la prima volta, eravamo state brave.
Difficile era immaginare una situazione di emergenza, come una caduta accidentale,nella quale senz'altro non si sarebbe avuta la lucidità di strisciare verso il divano trascinando le stampelle come nella simulazione, ma per il momento poteva bastare.
Con i pazienti emiparetici per ictus spesso è necessario rimanere a terra per settimane prima di trovare un modo per alzarsi. Per essere la prima volta, eravamo state brave.
Nelle settimane successive affrontammo la deambulazione con stampelle in casa, le autonomie (andare in bagno senza sedia, lavarsi, cucinare), le scale (che richiedono gran forza nelle braccia), e il prato di casa sua (faticosissimo ma di grande soddisfazione). Il tutto cadendo più volte e iniziando anche un lavoro parallelo con il fantasma.
Poiché nella letteratura avevo trovato molte indicazioni tecniche (come fasciare il moncone, ad esempio, cosa che avremmo dovuto iniziare subito in vista della protesi), ma poco o nulla riguardo agli aspetti più affascinanti del trattare qualcosa che non c’è, fu necessario improvvisare.
Quando studiamo il sistema nervoso per comodità partiamo dal sistema centrale, e seguiamo le varie ramificazioni fino in periferia, fino alle innumerevoli terminazioni nervose che trasmettono il movimento o ricevono informazioni..
Ma quando parliamo di sistema afferente (quello che dalla periferia arriva al cervello) è come se nel considerare un albero partissimo dalle foglie, risalendo su rami sempre più consistenti che confluiscono tra loro fino a “raggrupparsi” nei grossi rami portanti, e poi al tronco.
A metà coscia, quindi, avrei avuto già dai grossi rami che erano stati tagliati a monte del dolore.
A metà coscia, quindi, avrei avuto già dai grossi rami che erano stati tagliati a monte del dolore.
Decidemmo di mappare il moncone, cercando ad occhi chiusi i punti che corrispondevano ad una sensazione sull’arto mancante. Trovammo così “il punto delle dita”, quello del ginocchio, quello del collo del piede.
All’inizio le chiesi di segnarli, ma scoprimmo che ogni volta cambiavano leggermente, quindi per non scoraggiarci decidemmo di mappare nuovamente il moncone ogni volta. Così davamo un po’ di sollievo al dolore, anche se per poco.
All’inizio le chiesi di segnarli, ma scoprimmo che ogni volta cambiavano leggermente, quindi per non scoraggiarci decidemmo di mappare nuovamente il moncone ogni volta. Così davamo un po’ di sollievo al dolore, anche se per poco.
Scoprimmo anche come trattare i crampi. Al contrario di quanto avessi sperato, però, non era sufficiente massaggiare il punto del polpaccio (che peraltro non era affatto facile da trovare): l’approccio doveva essere globale, l’atteggiamento del corpo doveva rispecchiare la distensione di un “vero” crampo, con il corpo flesso sulla gamba fantasma distesa (quindi dovevamo aspettare che si distendesse, un controsenso per il trattamento tempestivo di una sensazione dolorosa e immediata come il crampo).
Gli insuccessi maggiori li abbiamo avuti nell’approccio psicologico (so che è improponibile e costoso avere uno psicologo in ogni reparto di un ospedale, come sarebbe auspicabile, ma ci sono alcune alterazioni così repentine e totali del corpo, che forse in questi casi un aiuto sarebbe necessario: scoprire di avere una sla, o avere un incidente e svegliarsi tetraplegico, o senza arti… nessuno di noi vorrebbe essere lasciato solo a sperimentare situazioni simili).
A. rimaneva demoralizzata, e anche se mostrava entusiasmo per le novità e per i traguardi che raggiungeva a gran prezzo, credo lo facesse più per me che per se stessa. Molte delle nostre vittorie non sono state integrate nella vita quotidiana, e continuava ad usare la sedia a rotelle. Quando finalmente è stata pronta per la protesi, la nostra terapia è finita, e non ho potuto vedere il rientro a casa con la gamba nuova.
P.S. Ho sentito A., che nonostante il tempo e i soldi spesi (di tasca sua) per la protesi e il training con i terapisti del centro, non ha mai avuto modo di usarla. La gamba sinistra comincia ad avere i segni della neuropatia, e all’ospedale hanno già parlato di amputazione delle dita. Non ha più avuto una terapia domiciliare, e come altri pazienti è stata lasciata al suo corso anche grazie ai nuovi tagli alla sanità.
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